Per essere famiglia, da un punto di vista culturale e legale, è necessario e sufficiente essere due o più persone legate da vincoli matrimoniali, di parentela o di affinità e condividere interessi intellettuali o economici. Psicologicamente, tuttavia, molte coppie non si sentono famiglia finchè non condividono l’amore e la tutela per un figlio. Sia che il passaggio da due a tre, avvenga in maniera naturale, tramite tecniche di procreazione medicalmente assistita sia attraverso l’adozione è sempre un’esperienza di grande gioia, ma porta anche paure, timori, spesso un certo “stare scomodi” nella nuova situazione, soprattutto quando vi si arriva con fatica, dopo delusioni, lutti ed avendo vista incrinata la propria valenza generativa.
Nel percorso dell’adozione, infatti, tali emozioni, non propriamente positive, sono particolarmente accentuate perché la coppia si trova a doversi confrontare con il cambiamento radicale della sua idea di famiglia, spesso idealizzata, e si inizia a dubitare di sé stessi, sentendosi inadeguati, difettosi. Si è costretti a ricostruire non solo la propria identità personale, già messa in crisi dal doversi adattare ad una condizione di “ricerca di genitorialità”, come se fosse un traguardo, un punto di arrivo, una sfida, un sogno, quando spesso il desiderio di un figlio viene sentito semplicemente come un’evoluzione spontanea della crescita personale e della coppia, ma va ricostruita anche l’identità di coppia con delicatezza e minuziosità, un po’ come se si dovesse rimettere insieme un puzzle imperfetto, i cui pezzi ruvidi e taglienti sembra non possano combaciare più.
L’arrivo di un figlio “tramite la cicogna” ossia l’arrivo di un figlio che arriva da lontano, consegnato da terzi, segna un momento critico nella vita della coppia. Si arriva all’adozione a volte sfiniti, stremati, quasi come ultima spiaggia, altre volte, invece, si affronta il percorso con speranza, vedendo in esso una nuova luce, in preda all’euforia del progetto, della conquista. Ciò che spesso non viene mentalizzato e forse non viene neanche nominato durante l’iter, sono la separazione e la perdita. Che avvenga per scelta volontaria, da parte del genitore biologico, per decisione delle istituzioni o per morte, il genitore adottivo subentra in una dinamica di separazione e perdita. A livello mentale, questa inconsapevole certezza, quale forma può assumere? Quali scenari può evocare? A quali emozioni può essere connessa? Nell’esperienza clinica, oltre ai dubbi sulla propria adeguatezza come genitore, oltre al distress cui va incontro la coppia nella perdita della propria esclusività ed intimità, oltre all’angoscia persecutoria riferita alle istituzioni onnipotenti che possono dare me anche togliere, oltre alla presenza assente del genitore biologico… oltre tutto ciò che ci si aspetta… c’è un sottile senso di colpa, quasi una sindrome dell’impostore, un sentirsi “cattivi” per aver beneficiato del dolore, della patologia o del fallimento di altri. Se si aiutasse la coppia a spostare il focus da loro stessi e dal bambino, e soprattutto dal suo passato, e ci si riferisse al dono di una comunità organizzata, che raccoglie delle emergenze, trasformandole in doni dotati di senso, probabilmente i genitori adottivi avrebbero qualche fantasma in meno con cui confrontarsi. L’adozione è infatti un dono della comunità, una risposta collettiva, più che la soddisfazione di un bisogno personale o la rivendicazione di un diritto, ammesso che di diritto si tratti. Azzardando una similitudine, è come quando una persona è in attesa di un trapianto d’organo… non è la morte a portare l’organo ma è la comunità ad avere una funzione trasformativa fondamentale di ciò che è, di ciò che fa parte della vita.
Chiarito questo, avendo gettato lontano lo sguardo proattivamente, per poter dire l’indicibile, ci chiediamo: cosa succede alla coppia? Scoppia o si trasforma da segmento a triangolo?
Il passaggio dalla vita in due a quella in tre comporta, per tutti i genitori biologici o adottivi, un lavoro di riorganizzazione e di individuazione di nuovi equilibri, precari e fragili, che dipendono anche dalle peculiarità del bambino, dalle ambizioni personali, dagli ideali che potrebbero non essere rispettati nella realtà dell’essere genitori. Di fatto, che sia un bambino generato dalla coppia, che sia un bambino adottato, possiamo dire che comunque ci si mette un estraneo in casa. E quel sentimento di inquietante estraneità, di perdita della propria intimità, se è poco nominato nella generatività endogamica, diviene assolutamente inconfessabile nella generatività per interposta cicogna.
Il processo di adozione inizia con una valutazione approfondita della coppia, che viene scrutata e analizzata, quasi frugata, da esperti i quali esaminano ogni aspetto della loro vita personale e di relazione, scovando ed infilandosi in tutti quegli angoli bui che ogni individuo ha, chi più chi meno. Credo che l’intenzione non sia puntare il dito sui punti deboli degli agognanti genitori, né inserirli in una distribuzione di normalità, con tanto di cut off… penso che sia fondamentale riflettere insieme su cosa ciascuno se ne è fatto, dei propri “bui”. Quindi, superata la delusione, affrontati i lutti, rimodellata la propria generatività, aperta la porta all’estraneo, aperta la porta a molta gente, altrettanto estranea, che valuta e decide se si è idonei o “rejected”, usciti vincitori e promossi, si può dire che, in fondo, è tale la fatica, il non sapere come fare, la paura, lo stress, che a volte ci si sente sopraffatti e quasi pentiti? Si può dire: “non ce la faccio?” La risposta è no. Per due motivi fondamentali, il primo è che è culturalmente inaccettabile, ce lo dice anche qualche proverbio obiettivamente impietoso, come il notissimo: “hai voluto la bicicletta… quindi pedala!” ovvero “Arrangiati!”. Il secondo motivo è che, tanto, non c’è nessuno a cui dirlo, dato che 9 volte su 10, dopo l’affollamento di operatori, indagatori, scrutatori, esaminatori, messo il bebè in macchina, spariscono tutti. La funzione di dono, non è seguita dalla funzione di aiuto. Resta attiva la funzione di giudizio, un po’ quella di sorveglianza, non quella di aiuto. Ed è forte il sospetto che di aiuto ce ne sia bisogno abbondantemente.
Se la coppia adottiva è sopravvissuta fino a qui, a tutto ciò si aggiungono spesso divergenze educative e culturali tra i due nuovi genitori, che sfociano in riflessioni e conflittualità che mettono in discussione la compatibilità della coppia. Se i “potenziali genitori” riempiono le serate, nell’attesa del bimbo, prefigurandosi le complessità del caso e simulando problem solving, in accesi dibattiti, durante i quali cominciano a guardarsi un po’ in cagnesco, rendendosi conto che non si sono mischiati solo con il partner, ma con tutta la stirpe, culturalmente ed incoltamente connotata, quando poi si passa alla fase di “neogenitori” cosa succede?
La coppia inevitabilmente passa un periodo di crisi. Il bambino, che porta amore ma anche scompiglio, diventa “sanguisuga” dell’attenzione riducendo i momenti di condivisione e di intimità della coppia. I conflitti interiori che si pensava di aver superato riemergono, si capisce che le debolezze della coppia sono maggiori di quanto si immaginava. Le divergenze, che sembravano piccole, si trasformano in fratture, e la comunicazione si riduce a mugugnii e a momenti di tensione. Si inciampa sempre nell’altro, che sembra essere sempre nel posto sbagliato al momento sbagliato. L’arrivo di un figlio viene identificato come una “transizione alla genitorialità” un percorso che generalmente per i genitori biologici è preceduto da nove mesi di preparazione fisica ed emotiva in cui si ha modo di dar voce a paure, emozioni e cambiamenti. Per le coppie adottive, invece, l’arrivo di un figlio può essere un percorso molto lungo, o al contrario molto rapido ed improvviso. I bambini arrivano senza preavviso, e la coppia si trova a dover affrontare un impegno straordinario senza essere preparata a ciò che comporta. Non essere preparati ad affrontare l’arrivo del bambino, nonostante la valutazione per l’idoneità, i libri letti, i film che trattano il tema, fa sì che spesso, e soprattutto se arriva un bambino già grande, con delle memorie traumatiche più ingombranti, fa sì che scatti nella coppia una sorta di “sacrificio messianico”. “Io ti salverò dal dolore colmando il tuo vuoto”, sbagliando completamente strada, poiché un bambino adottato è pieno. Pieno di aspettative (degli altri), pieno di significati, pieno di memorie non verbali, pieno di voci che non sentirà mia più, pieno di perdite, pieno di desideri insoddisfatti, pieno di emozioni che nessuno ha aiutato a regolare.
E’ così che la necessità di dare amore e sicurezza al bambino può portare a mettere da parte sè stessi e la relazione, la coppia si sente in dovere di “risanare” un vuoto che non è un vuoto e continua a riempire un individuo già pieno, rischiando di “romperlo d’amore o di ansia”.
Assorbiti dalle esigenze del bambino e freneticamente intenti a ristabilire equilibri, la coppia può rischiare di “frantumarsi”, mettendo a repentaglio il proprio legame. Ma come recuperare ciò che si era e si è ancora?
Ci si chiede e, quando va bene, lo si chiede in una stanza di “psicodialogo”, se si supererà mai questa impasse. Il più delle volte, fortunatamente, trovato un equilibrio faticoso e precario, la coppia comincia a rimodellarsi, a ritrovare quella connessione che l’amore iniziale ha creato e che ha creato l’amore iniziale. Già, perchè per far crescere un bambino sereno, i genitori devo essere sereni, uniti e consapevoli delle proprie fragilità, paradossalmente anche in quelle situazioni in cui la coppia arriva alla separazione. Tuttavia, è bene ricordarlo, dalla co-genitorialità non ci si separa mai. Non c’è nulla di male se ogni tanto la coppia smette di essere solo “famiglia” e torna ad essere “coppia”. Uscire insieme a cena, fare una passeggiata o semplicemente condividere un abbraccio possono essere momenti preziosi per ritrovarsi e rinnovare il legame. Questi piccoli momenti permettono di superare le difficoltà, colmare gli spazi e le discussioni e di vedere tutto coma una tappa necessaria nella crescita del bambino, per cui si è lavorato tanto, affrontando prove, incontri e a volte anche umiliazioni.
Se tutto va bene, con il superamento delle difficoltà nella relazione di coppia, si apre un nuovo capitolo fondamentale: dire o non dire la verità sull’adozione e sull’origine del bambino? Questo tema tocca profondamente il percorso genitoriale, il processo di formazione dell’identità del minore e la solidità del legame familiare.
“E’ proprio necessario dire a nostro figlio che è stato adottato?” Questa è una delle domande più comuni nei genitori adottivi specialmente quelli che hanno accolto un bimbo molto piccolo, prima dei due anni, pensando che non conserverà alcun ricordo delle sue origini. Tuttavia, le esperienze cliniche dimostrano che anche i bambini molto piccoli possono mantenere frammenti di memoria del loro ambiente natale e della loro lingua originale, spesso riaffioranti in sogni o sensazioni enigmatiche. Non affrontare questo tema può generare tensioni silenziose, limitare i dialoghi e creare un alone di mistero che i bambini percepiscono, portandoli a sviluppare diffidenza e insicurezza. Molti figli adottivi riferiscono, infatti, di aver “sempre saputo” in modo indefinito di essere stati adottati.
Per alcuni genitori condividere questa realtà è emotivamente complesso. Può dipendere da ferite non sanate, come l’impossibilità di generare naturalmente, oppure dal timore di perdere l’amore del figlio o di vedere compromessa la propria identità genitoriale che tanto è stata ricercata e con fatica creata. Tuttavia, l’esperienza dimostra che i bambini non smettono di amare chi si prende cura di loro con dedizione e affetto.
Anche la legge 149 del 2021 (art 28) sottolinea l’obbligo da parte dei genitori adottivi si informare il minore riguardo la propria condizione di figlio adottivo nei modi e termini che ritengono opportuni.
Ma quando e come si può dire questa verità?
L’ideale sarebbe iniziare fin da subito, cogliendo ogni occasione per raccontare la verità in modo naturale e sereno. Studi indicano che i bambini acquisiscono piena consapevolezza della differenza fra figlio biologico e adottivo intorno ai cinque anni, ma attendere troppo potrebbero rendere la rivelazione traumatica, un’informazione tardiva può far sentire il bambino ingannato su un aspetto cruciale della sua vita compromettendo il rapporto di fiducia con i genitori.
La verità, comunque, va sempre adattata alle capacità di comprensione del bambino, modulando il linguaggio e i dettagli senza mai distorcerla, racconti confusi o parziali possono generare nel bambino un immaginario che si allontana dalla realtà, alimentando malessere e difficoltà di identificazione personale. Nelle stanze di terapia, arrivano spesso bambini confusi da genitori ansiosi e spaventati che calcano la mano su spiegazioni intellettualizzanti e verbose, non adatte alle limitate possibilità di comprensione dei bambini piccoli. A volte, le versioni dei due genitori non collimano, e sono queste le situazioni di maggiore disorganizzazione nello sviluppo e di maggior malessere della famiglia. Spesso vengono fraintese o esasperate le indicazioni degli esperti (che nel frattempo, come dicevamo pocanzi, sono spariti), togliendo al bambino quello spazio creativo di mistero, di immaginazione, di potere creativo necessario ad ogni bambino per crescere con fiducia ed in armonia. Mi è capitato di incontrare coppie così prese da un realismo improprio, da aver negato al figlio l’illusione di Babbo Natale, in nome dell’onestà e della logica ad ogni costo.
Uno degli aspetti più delicati è poi la compensazione dell’abbandono. È fondamentale accogliere e sostenere il bambino nell’esplorare i suoi eventi di vita, senza cercare di consolarlo con eccessi materiali o affettivi, e senza anticiparlo, fornendo strumenti per una sana elaborazione, rispettando il timing. Spesso capita di accogliere genitori adottivi che spostano il loro disagio sul figlio, chiedendo una terapia di prevenzione, quando il figlio non sembra né pronto, né sintomatico, né interessato ad affrontare l’anda anomala delle sue origini.
Ma perché alcune coppie evitano di rivelare la verità?
I motivi alla base sono molteplici ma sicuramente tra questi hanno particolare rilevanza:
- Protezione emotiva del bambino: si teme che il bambino possa sentirsi rifiutato o meno amato sapendo di essere stato adottato.
- Ricerca di normalità: alcuni genitori adottivi desiderano crescere il bambino come se fosse biologicamente loro evitando percezioni di “diversità” che potrebbero complicare la vita familiare.
- Paura di una crisi di identità: la conoscenza di essere adottati potrebbe portare a una crisi di identità nel bambino che potrebbe iniziarsi a interrogare sulla sua “vera famiglia” o sul motivo dell’abbandono.
- Tempi percepiti come inadeguati per la rivelazione: si potrebbe ritenere che il bambino sia troppo piccolo o emotivamente immaturo per affrontare l’argomento.
- Stigmatizzazione sociale: in alcuni contesti sociali l’adozione può essere vista come sospetta o come uno stigma e i genitori potrebbero voler proteggere il bambino dai giudizi esterni.
- Timore di perdere il legame familiare: i genitori adottivi potrebbero temere che il bambino una volta saputo dell’adozione possa sentirsi distante da loro e cercare i genitori biologici mettendo a rischio il rapporto di affetti creato nel tempo.
- Difficoltà nello spiegare il passato: se le circostanze che hanno portato il bambino all’adozione sono complicate o dolorose, abuso, abbandono, morte, i genitori potrebbero voler evitare di affrontare l’argomento.
Molto spesso nel tentativo si colmare questi dolori o evitarli, i genitori adottivi potrebbero creare compensazioni che portano il bambino ad avere una visione distorta della realtà e allora se non si è pronti a raccontare questa parte non è forse meglio non dire, piuttosto che creare confusione con conseguenze emotive importanti? Essere onesti non vuol dire tradire il mistero della nascita, il velo sulle origini accompagna ogni infanzia, gli svelamenti sono codificati da momenti rituali e cambiamenti biologici, in tutte le esistenze ed in tutte le culture i bambini sono esposti progressivamente alla storia familiare e soprattutto attraverso la mediazione delle narrazioni, dei mascheramenti, dei giochi, dei riti, del rispecchiamento nella comunità. Perché privare i bambini nati nelle loro famiglie per via adottiva, del naturale dipanarsi delle origini?
Amore, attenzione, parole semplici, gesti misurati e qualche omissione permetteranno alla coppia che si è fratturata e poi ricomposta come un puzzle, di diventare più solidi e flessibili, accogliendo una persona che porta con sé una vita inevitabilmente altrettanto fratturata, cercando di sigillare con stucco dorato le spaccature, affinchè ne risulti qualcosa di ancora più bello, ancora più prezioso, ancora più famiglia.
Chiara Sacca & Francesca Moro.